venerdì 15 giugno 2012

Il poeta senza poesia (3)

Si voltò e vide un uomo e una donna dai tratti tipicamente orientali con due enormi macchine fotografiche nere che pendevano dai loro colli. Erano vestiti in maniera alquanto semplice: lui indossava una maglietta rosso sbiadito e priva di scritte, loghi o disegni, solo una piccola tasca nella parte destra, e un paio di jeans; lei, come si conviene ad un'esponente del mondo femminile, appariva leggermente più curata: un leggero velo di trucco, soprattutto intorno agli occhi e sulle guance, nel primo caso di un verde scuro ma luminoso, in tono con il suo abbigliamento, nel secondo di un rosso tenue, delicato, per dare più spessore e vita al suo volto altrimenti troppo pallido. Indossava una camicia verde bottiglia e un paio di pantaloni neri che si stringevano sulla caviglia, lasciando il posto a un paio di sandali di pelle nera che mostravano i suoi piedi piccoli e dai morbidi tratti. - Ecscuse me – iniziò a dire lui, facendo uso di un inglese misto ad italiano che rivelava ampie contaminazioni nella pronuncia della sua lingua originale – c-c-como, come chiamare questo luogo? - Enrico alzò un sopracciglio e assunse un'aria altezzosa – Castel Vecchio – rispose senza tanti giri di parole. L'uomo guardò la donna e ripeté a bassa voce – Cassel Veco -, al che Enrico alzando la voce, soprattutto in concomitanza delle lettere sbagliate dal quello strano tipo, e allungando infinitamente ogni lettera, disse – No, non “Cassel Veco”, CaaassTeeel – fece una breve pausa – VecHIIIIoo – poi, per chiudere definitivamente, una volta per tutte, la questione – CASTEL VECCHIO – quasi urlando. - Ah, capito capito, grazie grazie – ripeté più volte; erano, evidentemente, alcune delle prime parole della nostra lingua che aveva imparato e aveva sviluppato quasi un rapporto di intimità con esse, lo rassicuravano. Dopo questa brevissima conversazione, i due si allontanarono da Enrico, presero in mano le loro ultramoderne macchine fotografiche e iniziarono a immortalare quel luogo. Nel farlo presero posizioni strampalate: sdraiandosi sulla strada, in ginocchio, muovendosi a gattoni come due neonati, sostenendosi a vicenda nel cercare di raggiungere un punto più elevato, addirittura tentarono di arrampicarsi su uno di quegli alberi eterni, cadendo però brutalmente a terra, forse facendosi anche male. Quelle povere piante dovevano aver visto di tutta nella loro lunga vita: cavalieri, poeti, sparatorie, sangue, lacrime, feste ma mai dovevano aver assistito ad una scena tanto comica. Dopo circa una ventina di minuti scomparvero nell'orizzonte, forse in cerca di nuovi paesaggi da catturare e poi mostrare agli amici una volta ritornati dal loro viaggio. Enrico si soffermò a riflettere su quanto gli era appena accaduto.

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