venerdì 20 luglio 2012

L'ultimo soldato

- Buonasera, uno per “L'ultimo soldato” grazie
- Ecco a lei, buona visione
- La ringrazio

Preso il biglietto mi diressi verso il corridoio che mi avrebbe introdotto nella sala. A braccia conserte, quasi a guardiano di un cancello per l'aldilà, un uomo di mezz'età: sulla sommità della testa stava progressivamente espandendosi una calvizie alquanto pronunciata, gli rimaneva ormai solamente un piccolo atollo di capelli grigiastri; gli occhi spenti, opachi, fumosi, come due fantasmi in pena cercavano la redenzione in una scenografia violacea, inutilmente; non era particolarmente alto, né particolarmente magro, a dir la verità non aveva alcun particolare che lo distinguesse dalla massa, un comune essere umano: vestito banalmente attraverso un accostamento di colori acido e violento che confermava la sua totale noncuranza per l'apparenza. Dava l'impressione di essere stanco, esausto, distrutto. La professione di strappa biglietti sembrava averlo svuotato, privato dell'essenza e sfruttare opportunisticamente il suo corpo come involucro. La tipica persona con la quale hai un contatto ma che, in realtà, ha per te una valenza approssimativamente pari a zero, triste dopotutto, soprattutto in un giorno come quello. Gli porsi il biglietto.

- …
- Prego, buona visione e buon anno soprattutto
Mi disse con aria spazientita, quasi l'avessi improvvisamente e rudemente strappato dai suoi pensieri.
- Grazie

Una gentilezza gratuita, pronunciata come se costretti; forse per questo si disperse rapidamente nell'aria, priva di consistenza.
Nel giro di qualche passo ero già all'interno del locale. Le luci erano ancora accese e come al solito sul grande schermo venivano proiettate pubblicità dei locali nelle circostanze, dei paesi vicini, pizzerie, oreficerie e centri informatici. La sala era quasi vuota: qualche coppia di anziani e qualcuno in solitario, tutti adeguatamente disposti in maniera tale da essere distanti almeno 5, 6 posti l'uno dall'altro; quasi si avesse paura di un contatto umano, quasi fosse implicita, ovvia, data per scontata la necessità, quando possibile, di stare il più possibile distanti l'uno dall'altro, per avere maggiore comodità, forse, privacy, magari o, semplicemente, per paura del confronto con l'altro, di sottoporsi all'inevitabile giudizio dello sguardo estraneo. Scelsi con accuratezza scientifica il posto in cui sedermi, e, facendolo, mi sentii fiero di aver messo in pratica ciò che sin da piccolo mi veniva consigliato in merito all'incredibile vista che si aveva da una posizione elevata, ma non troppo, e quanto più possibile centrale rispetto allo schermo. Tolsi la giacca e con grande precisione la disposi sul sedile a fianco, sicuro che quella fosse la posizione migliore. La mia fila era occupata solamente da un'altra persona, una donna, una bella donna, aveva l'aria sicura di sé, di quelle esponenti del mondo femminile che già al primo incontro ti conoscono meglio di te stesso e ti trapanano con il loro sguardo di sufficienza stabilendo sin da subito i limiti che non dovevi superare e che, nella maggior parte dei casi, non potevi nemmeno sperare di raggiungere. Doveva sicuramente avere una buona ragione per essere in uno squallido cinema di periferia, soprattutto in un giorno del genere. Si spensero le luci, stava per iniziare.


Una scritta a caratteri cubitali: 21 Giugno 1939, Londra
Anfibi di pelle nera, lucidissimi. Avanzano creando un suono piacevole, quasi rassicurante su uno splendente parquet.

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